Uno degli interessi principali del progetto contemporaneo di
architettura è rivolto a tutte quelle situazioni che potremmo definire come
“geografie del disagio”.
Con questo termine si vogliono indicare tutte quelle aree dismesse
che, per caratteristiche morfologiche, alto valore testimoniale, o perché
costituiscono dei vuoti critici, sono fortemente suscettibili di trasformazioni
virtuose.
Accanto agli spazi riconosciuti come beni archeologico-monumentali o
monumenti geologici, infatti, si possono riconoscere luoghi ad alto potenziale
quali, ad esempio, dismissioni rappresentate da ex siti bellici o produttivi o
le “singolarità” morfologiche (ad esempio grotte o caverne) il cui valore di
frequente non è riconosciuto.
A tali categorie appartengono spesso luoghi ipogei o comunque
nascosti, mi riferisco a cave, miniere, tunnel,
bunker militari, rifugi, ma anche
sbancamenti, cantieri a cielo aperto, infrastrutture o altre “ingegnerie
interrotte”. Essi sono altrettanto meritevoli di attenzione quanto le
catacombe, le necropoli, i templi, le città e le costruzioni storiche (i beni
archeologico-monumentali).
Che
si tratti quindi di cavità antropiche o spontaneamente sorte, che rivesta
maggiore o minore valore storico-testimoniale, oggi gli spazi del sottosuolo,
in particolare, sono risorse di cui il progetto architettonico non può esimersi
dal considerare. Per quelle preesistenze, poi, che ricadono nel pieno dei
tessuti urbani storici, consolidati e profondamente stratificati, si può
addirittura intendere l’interesse progettuale come un atto d’obbligo.
Nell’ottica ampia di “sostenibilità” rivolgersi alle aree ipogee, a
maggior ragione se situate in contesti urbani, significa risparmiare sul
consumo di suolo evitando volumetrie fuori terra, salvaguardare le reti
ecologiche, tutelare gli ecosistemi, significa, in una parola, attuare una
progettazione “responsabile”.
In molti casi tali luoghi sono considerati delle vere e proprie ferite
inferte al territorio che, se non sanate, rischiano - ed in alcuni casi sono -
di diventare ambiti di crisi permanente. Trasformare tali criticità in risorse
è il compito che molti progettisti si sono dati; riconoscere, studiare,
conservare e infine recuperare luoghi dismessi o abbandonati significa restituire
tale bene alla collettività e re-immetterlo nel circuito di fruizione culturale
ed economica di un territorio.
Come si può capire, diversi fattori entrano in gioco: ambientali,
economici e, non ultimi, emozionali-affettivi. Se si pensa, ad esempio, ai
luoghi ex estrattivi quali cave o miniere, legati quindi ad attività
produttivo-economiche, non ci si può dimenticare delle persone che in essi chi
vi lavoravano, persone spesso ancora in vita. In altre parole, sono luoghi
della memoria che conservano tracce e storie di un territorio e non solo le
ferite inferte al paesaggio.
Ora, alcune domande sorgono spontanee: nel vasto panorama di queste
tipologie spaziali, quali luoghi sono da considerare prioritariamente
meritevoli? Come riconoscere un progetto che riesca ad innescare una azione
proattiva in tali territori? Quali azioni e strategie progettuali adottare in
contesti di questo genere? Quali le funzioni compatibili?
Nel tentativo di rispondere a queste domande, mi sembra molto utile
soffermarmi sul lavoro dello Studio Terragni Architetti che, in questo campo, ha condotto due esperienze
progettuali di successo.
Questo studio di architettura prende il nome dalla sua fondatrice, l’architetto Elisabetta Terragni, ed è composto da un team di architetti fra i quali Emilio Terragni, Paola Frigerio e Diego Magrì insieme ad altri collaboratori. Oltre alla realizzazione di edifici scolastici, residenze e allestimenti museali, lo studio è fortemente interessato ai problemi oggetto di questo post: le aree dismesse e luoghi dimenticati.
Il primo progetto di cui vorrei parlare è quello del Museo
Storico del Trentino realizzato, tra il 2007 e il 2009, nella gallerie stradali
dismesse di Piedicastello (Trento).
Un’autostrada che si trasforma in un museo e ha la capacità di riconnettere
due brani di città attraverso un percorso espositivo riguardante l’Autonomia,
le Dolomiti, l’Immigrazione, lo Sport, la memoria collettiva di un territorio.
Il progetto si compone di due gallerie: la Galleria Bianca e la
Galleria Nera. In quest’ultima il percorso museale vero e proprio, nella prima
spazi modulari e fissi che ospitano servizi quali biglietteria, bookshop e aule
per seminari e mostre temporanee. Come si legge dalle parole dell’architetto
Elisabetta Terragni: «La scelta vincente
è stata quella di connotare in maniera evidente e contrastante le due gallerie:
una bianca, l’altra nera. Sia all’interno che all’esterno. E di limitare al
massimo gli interventi. L’aspetto affascinante è lo spazio delle gallerie che
dunque doveva essere salvaguardato e valorizzato.»[1]
Questo museo è stato il “trampolino di lancio” per un’altra
sperimentazione progettuale: il Museo di
Gjiri i Panormes (2011) a Porto Palermo , Albania, creato in una ex base
militare per sottomarini, in collaborazione con lo storico Jeffrey Schnapp e il
grafico Daniele Ledda.
La storia recente della Guerra Fredda ha lasciato tracce pesanti nel
Paese, motivo per il quale lo sfruttamento delle aree dismesse e dei siti ex
bellici riveste un ruolo centrale nei processi di trasformazione del territorio.
L’impressionante numero di tali luoghi, in grado di costellare tutta l’estensione
geografica del Paese, testimonia la vera e propria ossessione per la difesa militare
messa in atto dal governo albanese negli anni Sessanta e Settanta.
Cosa fare con questi spazi che hanno esaurito la loro funzione?
Come dichiarato da Elisabetta Terragni: «L’emozione di camminare per la prima volta in un tunnel abbandonato
(che sia un’infrastruttura civile o militare) accelera il pensiero: da subito è
evidente che non si può ‘disfare’ un intervento scavato con tanta violenza
nella terra e nella roccia, e neppure costruire in armonia con esso. La sfida
consiste nell’immaginare una nuova destinazione, un nuovo futuro per una
condizione diventata inutile. La capacità di decidere resta paralizzata dalla
natura opprimente e introversa di questi spazi. […] In un tempo di sovraesposizione […], i nostri progetti per i tunnel in Italia e Albania sono vasti,
introspettivi e invisibili. Benché sia impossibile individuarli nelle mappe di
Google o nelle immagini satellitari, sono profondamente connessi ai luoghi,
alle persone e alla memoria»[2].
Lo spazio, che si articola in 650 metri di lunghezza per 12 di
altezza, nasce per ospitare quattro sommergibili Whiskeys, uno dei quali sarà
ancorato all’interno del tunnel, alla fine del percorso espositivo di questo
museo della Guerra Fredda; anche qui, come a Trento, la strategia adottata è
stata quella di far parlare il luoghi, allestendo lo spazio con pannelli espositivi
e strutture leggere e reversibili.
Come si vede, il risultato del processo di transizione di queste
geografie del disagio è sempre la restituzione alla collettività di luoghi di
produzione culturale, di condivisione di memorie, come unico strumento per il recupero
e la salvaguardia del territorio dalla rovina, dall’oblio, dall’espansione
indiscriminata dell’azione edilizia.
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